Stevulin dla Plisera e Majutin dal Pampardù

Stevulin dla Plisera e Majutin dal Pampardù

Le maschere santhiatesi

Le maschere attuali del nostro carnevale sono relativamente recenti, almeno se si considera il contesto storico secolare in cui si svolge. Vennero infatti create nel 1929, a somiglianza delle maschere torinesi Gianduja e Giacometta.
Prima di tale data non si sentiva la necessità di avere due specifiche maschere locali, in quanto gli Abbà, da secoli, con i loro abiti sgargianti, rappresentavano direttamente le diverse autorità carnevalesche. Le maschere furono quindi create, a Santhià come in molti altri centri piemontesi, per dare una ventata di freschezza e far rivivere antiche tradizioni, come i fasti dell’antica Badia. Nel 1934 si fece strada l’esigenza di identificare le maschere con concrete figure umane, per cui si pensò a due giovani provenienti dalla nostra campagna, e precisamente da due cascine con terreni non propriamente ricchi: Majutin arrivava dal Pampardù (“Panperduto”, in italiano), una cascina posta nel punto più alto del territorio comunale, mentre Stevulin abitava alla cascina Plisera (“Pellizzera”, in italiano), non lontano dal confine con Tronzano. Stevulin è il classico contadino furbo, coraggioso, il classico “scarpa grossa e cervello fino”, pronto a denunciare e condannare le storture, gli abusi e il malvezzo locale; Majutin invece è la regina della casa, obbediente e sottomessa, umile e modesta.
Sebbene le due maschere vengono impersonificate nel Novecento, le “vicende” attorno alle quali ruota la loro storia sono ambientate in epoca medievale: la leggenda narra infatti che i due giovani, volendo contrarre matrimonio, avrebbero dovuto sottostare alle richieste di “jus primae noctis” del signorotto locale, che pretendeva il pagamento di una tassa per consentire lo stesso[1].
Questo sopruso scatenò la ribellione di Stevulin che, con l'appoggio del popolo, organizzò la rivolta e, una volta sconfitto il tiranno, preparò il proprio viaggio di nozze a Santhià con Majutin, ottenendo di poter festeggiare con tre giorni di baldoria, con balli e mangiate offerte a tutto il popolo. Evidentemente si tratta di una ricostruzione, peraltro abbastanza diffusa, essendo la trama della vicenda piuttosto generalizzabile[2]
Ora Majutin e Stevulin sono diventati i beniamini del Carnevale Storico di Santhià e i giovani fanno a gara per avere l’onore di impersonificarli.


[1] È ormai acclarato dagli storici che lo ius primae noctis non ha nulla a che fare con “pretese” di tipo sessuale. Piuttosto, visto che i vari aspetti della vita dei contadini dei secoli passati erano spesso condizionati dal legame con la terra che coltivavano e, quindi, con il feudatario che possedeva i campi, è ragionevole pensare che anche per contrarre  matrimonio fosse necessario chiederne l'autorizzazione e versare un tributo. Secondo la studiosa Régine Pernoud, nel corso del X secolo si istituì l'uso di reclamare un'indennità pecuniaria dal servo che, sposandosi, lasciava il proprio feudo per trasferirsi in un altro. Il "diritto signorile" era pertanto di natura prettamente economica. Molto più difficile credere che vi siano stati casi in cui la richiesta fosse da interpretare “in senso letterale”. In ogni caso non si può parlare dello ius primae noctis come di un fenomeno generalizzato del diritto medievale. Oltre all'assenza di riferimenti legislativi ufficiali civili o ecclesiastici, va notato come nel Medioevo vi furono numerose rivolte dei contadini in occasione delle quali venivano redatte in forma scritta richieste e lamentele dei rivoltosi (vedi, per esempio i dodici articoli della guerra dei contadini del 1525). In questi testi non si trovano mai accenni allo ius primae noctis, né a soprusi sessuali d'altro genere.
[2] La leggenda non è dissimile a quella ambientata a Ivrea, ai tempi di Re Arduino. Qui regnava un signorotto di Vercelli che amministrava la città con grandi soprusi, facendosi odiare da tutto il suo popolo.